lunedì 12 aprile 2010

Storia delirante della letteratura: i classici russi.




A pagina 126 ho deciso di interrompere la lettura di Delitto e castigo. Io e i russi non andiamo d’accordo evidentemente. Pure con Anna Karenina è andata così. È più forte di me, inizio con i migliori intenti, rimango affascinato dagli incipit, ma poi mi perdo. Quando Raskolnikov fa fuori ad accettate quella vecchia bagascia dell’usuraia ho pensato di trovarmi in un film dei fratelli Cohen. Poi a pagina 126 mi sono rotto le scatole. Ho chiuso il libro e mi sono addormentato. Intendiamoci, non incolpo né Tolstoj, né Dostoevski, né il Cremlino: la colpa deve essere mia. Ciò non toglie che una qualche ragione ci sarà. Così mentre dormo rimugino sulla mia sconfitta.
È chiaro come la condizione umana sia centrale nella letteratura russa della fine dell’ottocento. L’azione è poco, è la scintilla, il più della vicenda accade dentro al protagonista. Ma non è questo che mi turba. Se riduciamo tutto all’azione dobbiamo descrivere Il vecchio e il mare come la storia di uno che pesca. La cosa che mal digerisco è l’assenza di sintesi.
L’edizione che ho comprato consta 412 pagine, il che vuol dire che ho letto poco più del 30%. In questo 30% tutto è dilatato, attraverso descrizioni e dialoghi che per il lettore contemporaneo - per me senza dubbio - risultano lunghi e dispersivi. Certo, i tempi sono cambiati, ammalati di consumismo e rifiutismo ci siamo assuefatti a ritmi più incalzanti. Basti pensare a quanto dura un’inquadratura cinematografica: mediamente dai sei ai nove secondi per un campo lungo e dai tre ai cinque per un primo piano. Cinema e tv inoltre hanno contribuito ad allargare l’immaginario collettivo. Se parlo di Parigi o del’India o di New York abbiamo tutti delle immagini in mente, anche se non ci siamo mai stati. Ad un bravo autore bastano poche e ben congegniate parole per richiamare quell’immaginario.
C’è di più però. Non dobbiamo dimenticarci che Delitto e castigo è nato come romanzo d’appendice. In quel contesto è chiaro che gli scrittori avevano tutto l’interesse a farla lunga. I romanzi d’appendice uscivano a puntate sui giornali: lunghezza uguale più uscite, più uscite più compensi.
Deve essere questa alchimia tra assenza d’azione e assenza di sintesi la causa del mio poco amore verso i classici russi del XIX secolo e non, per esempio, verso quelli francesi o americani. I francesi hanno intrecci più complessi, gli americani sono i dei maghi a sintetizzare.
Mi giro e mi rigiro nel letto. Sudo. Posso vivere senza leggere i capisaldi della letteratura russa? È possibile che autori che hanno influenzato numerosi scrittori e registi negli ultimi centocinquant’anni a me appassionino fino a pagina 126? Dove sbaglio? Cosa mi manca? Ricompongo in sogno un fatto accadutomi qualche anno fa. Era il 2007, lavoravo in un ufficio comunale che si occupava di cultura. Un giorno mi misi a parlare di libri con una mia collega. Lei mi disse che non leggeva molto, ma che adorava la letteratura russa. «Ora sto leggendo I fratelli Karamazov», mi disse «però ci sto mettendo un po’: l’ho iniziato nel 2001».
Mi alzo e vado al computer. Digito su google “leggere letteratura russa” e mi appare la foto di un Cupido morto, un orso addomesticato e Marcello Lippi. Qui la risposta non c’è. Forse è la costanza che mi manca. Oppure ho bisogno di una qualche letteratura-ponte che al momento ignoro. A gettare la spugna però non ci penso proprio. Per riconciliarmi coi russi ordino on-line un’edizione economica de Il cappotto di Nikolaj Vasil'evič Gogol'.
Spengo il computer. Cerco il numero della mia ex-collega. Chissà se ha finito I fratelli Karamazov.

Andrea Cirillo

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