mercoledì 24 ottobre 2007

In bocca


Dio allora ordinò: «Vi sia luce».
E vi fu luce.
(Genesi 1,3)


Ci trovavamo ogni notte sotto lo stesso lampione, come quattro puttane, tra i brandelli di sigaretta e i fili d’erba che lottano contro il marciapiedi. Io, Fetta, Checco, Nik. Slegavamo le biciclette incatenate tra loro e andavamo per la città in cerca d’una via mai vista: c’è sempre una fila di palazzi che è sfuggita al tuo sguardo. Giocavamo in casa d’altri. In angoli bui del nostro cervello.
E si giocava a dadi.
Non per soldi o per gloria. È la regola numero uno, la più importante: il dado è sacro. È quello che ho, che abbiamo: sei numeri da giocarci. Giocavamo perché il mondo è come una strada dissestata. Tentavamo di riempire le buche.
Arrivati dove la corrente ci aveva condotto, sbattevamo a terra le nostre navi arrugginite e ci mettevamo uno di fianco all’altro. Il primo tiro era così, per scaldarsi, nemmeno guardavi che avevi fatto. Dopo si veniva subito al dunque. Partita secca. Sempre che non venisse il Killer, il numero più alto. Perché il Killer non ha sentimenti, ammazza la partita, che sia il primo o l’ultimo. Era una delle sei regole.
Finché venne il quinto tiro.
Ci domandavamo se l’acqua avesse potuto sbiadire le parole, quella notte. Pioggia pioggia pioggia pioggia. Tanta da stordire. Fitta come grate di confessionali.
E in mezzo a quella sassaiola spunta un uomo alto, con un impermeabile grigio e un cappello, che pedala verso di noi.
Dietro, un semaforo come una debole candela, sulla sinistra le quattro bici martoriate dall’acqua, sulla destra lampioni in preghiera. Davanti a noi un uomo che sembra uscito da un film.
Scende dalla bici e l’appoggia sul cavalletto. Ci guardiamo. Durante le partite tutti stanno alla larga. Di giorno nessuno ci temerebbe, ma di notte la gente ci considera un pericolo.
Il Checco, con garbo: «Cazzo vuoi?»
L’uomo alza lo sguardo. «Ho un dado».
Mica basta avere un dado per giocare, penso io. «Mica basta giocare per avere un dado» dice Nik, che a volte accavalla le frasi.
Lo sconosciuto guarda Fetta. Ha un volto scavato come da una malattia, perfettamente asciutto, come protetto da un campo magnetico: le gocce scendono dal cappello, scostano la faccia e cadono sulla spalla del soprabito. Gli dice: «Sputa per terra».
Fetta ubbidisce. Sputa in terra, non distante dalla scarpa dell’uomo. In un attimo la pioggia sciacqua via la sua bava.
«Il mondo è un labirinto di parole. La parola “pioggia” lava via la parola “sputo”».
Eravamo il filo d’erba che spinge contro l’asfalto, il dado che batte sulla strada. Con i sei numeri che ci restavano sfidavamo l’esistenza. Cercavamo il senso, il modo d’unire il cerchio alla retta. Una parola nuova.
Fu con noi.
«In casa d’altri una volta soltanto» dice il Checco. «Ovunque il dado cada è caduto» continua Fetta. «La bici è la nostra nave, il lampione il nostro molo» ancora Checco. Poi Nik: «L’asfalto è il nostro mare». Fetta: «Il Killer ammazza la partita». Sta a me. Respiro a fondo e con tono solenne: «Il dado è sacro».
Il primo è Fetta. Si mette il dado davanti agli occhi. Il dado, le righe di pioggia. Lo butta in alto una volta e lo riacciuffa stringendoselo nel palmo. Via. Parabola arcuata, veloce. Rotazione: in avanti. Cade a terra, inciampa. Tre. Fetta smorza un cazzo tra i denti.
È il turno di Checco. Checco è il mago della tecnica. Sa fare cose con un dado che voi umani non potete nemmeno immaginare. Fissa la fila di macchine che chiude la strada e lancia. Incredibile. Riesce a dare un effetto zig-zag degno di un giocatore di baseball. Eccellente, come al solito. Come al solito anche il re della sfiga: uno.
Io. Mi chino. «A cavallo di una tomba e una nascita difficile». È come un rito. Poi tiro. Rasoterra, con tutta la forza che ho. Il dado sembra una macchina impazzita, salta, si scaravolta, rimpatta sull’asfalto. Rallenta. Si ferma accanto a un pneumatico di una Punto blu petrolio. Quattro.
Non male. In fondo ho più numeri dietro che davanti.
Ora Nik. Lancia il suo dado in alto, lo lancia tanto in alto che non lo si vede più. Ha fatto l’istituto d’arte il ragazzo, ha il senso dell’estetica. Il cubo precipita con la pioggia. È una corsa tra acqua e plastica. Al fotofinish: il dado cade sul cofano della Punto blu petrolio. Toc.
Sei. Il Killer.
Io e Fetta ci avviamo a controllare i punteggi. Lo straniero rimane impassibile nel temporale con lo sguardo fisso alla strada. «È il Killer» gli dice Checco «La partita è finita». Si volta verso me e Fetta due passi più in là. Ci fermiamo.
«Niente di personale: è il regolamento» dice Nik «Ho vinto».
«Come volete» dice abbassandosi il cappello.
Non avrei mai violato le regole: conosco bene la fragilità dei riti. Ma quell’uomo mi affascinava. Non aveva nessun marchio. Fu per questo che gli dissi di tirare.
«Tira pure». Nik e Checco mi fulminano con lo sguardo.
Lo straniero si concentra. Si passa il dado sul palmo come se sgranasse un rosario.
Il quinto tiro.
Il dado cade e comincia a ribalzare avanti e indietro come un pendolo, e noi con lui, quindi si appoggia su un angolo e ruota. Ruota per una decina di secondi.
E poi il silenzio.

Nella pioggia infinita, appesantiti dall’acqua, girarlo e rigirarlo per contarne le facce. Nella strada nera annerita dal cielo ripetersi che un dado è un cubo e che in un cubo ci stanno sei facce.
Non è possibile.

Sette su sei.

Come un bozzolo appeso alle corde vocali.
Andrea Cirillo

1 commento:

  1. Le tue dita producono cose straordinarie, sono libere ora, ed imperscrutabili.
    Non lasciare che qualcuno t'ammutolisca o che provi ad'infilarti il morso, se solo lo lasci avvicinare già ti sei fatto contaminare.
    Scrivi, come sai, in modo sublime, non smettere " di essere vero mentre sogni" ciao....
    AT

    RispondiElimina

All rights reserved © 2008 Andrea Cirillo